Un film di Nagisa Oshima. Con Kenzo Kawarazakhi, Atsuo Nakamura Titolo originale Gishiki. Drammatico, durata 122′ min. – Giappone 1971. MYMONETRO La cerimonia valutazione media: 3,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
In viaggio con l’amata cugina Ritsuko verso un’isola sperduta, rifugio e tomba di loro cugino suicida, il giovane Masuo Sakurada rievoca, sull’arco di un quarto di secolo e attraverso una serie di cerimonie che sono altrettanti “momenti della verità”, le vicende della famiglia. Due ore dense di fatti, conflitti, tensioni e di bellezza figurativa, Gishiki è la summa del cinema di N. Oshima, il film che, anche per la limpida simmetria dei suoi ritorni all’indietro, più ha contribuito a farlo conoscere nel mondo. Opera dominata dalla presenza della morte, è una riflessione sulla difficoltà di essere giapponesi, oggi, e un bilancio storico-esistenziale del dopoguerra in Giappone. Film corale che propone almeno due personaggi memorabili: il vecchio despota Kazuono e la dolcissima zia Setsuko, interpretata da Akiko Koyoma, moglie del regista.
Nils guida lo spazzaneve in Norvegia, ha molto lavoro, è un uomo tranquillo e un cittadino esemplare. Quando suo figlio Ingvar, ormai adulto, è trovato morto, la polizia chiude il caso come overdose. Nils si improvvisa detective, scopre che c’è del marcio e risale la filiera malavitosa a partire da chi ha ucciso suo figlio per errore, sino ai boss locali: un indigeno vegano, nevrotico e violento, e un serbo della vecchia guardia. Incosciente e fortunato, Nils scatena una piccola guerra. Il tema del giustiziere da noir nordico è stemperato con battute su welfare e clima, sull’ottima assistenza dei carcerati in Norvegia e soprattutto dai siparietti che scandiscono i morti (e sono molti) con nome, soprannome e religione. Skarsgård convincente nei panni di Nils, mentre Ganz appare a suo agio nel cesellare il vecchio, anacronistico serbo Papa. Distribuito da Teodora Film.
Africa settentrionale, 1940. Il capitano Casati comanda una squadriglia di bombardieri. Un giorno, per un guasto, è costretto ad atterrare in una zona occupata dagli alleati. Sfugge però al nemico e riesce, con l’aiuto di alcuni coloni italiani, ad aggiustare il suo aereo e a rientrare nelle linee italiane. È con lui anche la ragazza della quale s’è innamorato. Finita la guerra, Casati si renderà ancora prezioso trasportando sul suo mezzo una bimba in pericolo di vita.
Milano, 1983. Sindacalista considerato un gran rompiballe, Nello viene mandato a dirigere la Cooperativa 180, una associazione di “matti” slegati dalla legge Basaglia (in vigore da 5 anni) e (non) impegnati in attività assistenziali. Il fantasioso Nello scopre le qualità di ognuno e, ostacolato da tutti, li mette al lavoro (posatori e ideatori di parquet) con grande successo. La sceneggiatura, robusta e precisa, è scritta da Manfredonia con Fabio Bonifacci, da una storia vera, raccontata come una favola di riscatto sociale più realistica di un documentario, come “una tragicommedia umana che ricorda da vicino il Cuculo ma non si compiace della psicanalisi e si diverte in modo discreto con un po’ di ottimismo e folclorismo” (Maurizio Porro). E Bisio smentisce chi sostiene che non sia attore adatto al grande schermo e alle sue durate. Speriamo che qualcuno se ne accorga.
A-ndrea (Solfrizzi) è contabile con moglie, due bambini e una suocera a carico; B-ernardo (Dix) è un industriale di successo; C-ristian (De Luigi) è un deejay pieno di debiti. Ciascuno è insoddisfatto della propria vita. Il caso li riunisce e improvvisamente agli occhi degli altri A assume l’identità di C, C quella di B, B quella di A. All’euforia subentrano inconvenienti e complicazioni. Morale: attento a ciò che desideri perché si potrebbe avverare. Esordio del romano G. Manfredonia (1967), nipote e allievo di Comencini, con una commedia brillante e paradossale, di evasione intelligente, scritta con Valentina Capecci e Anna Maria Morelli, che senza predicare, moraleggia con garbo e ironia. Qua e là s’ingorga, ma ha ritmo e agilità, recitata senza strafare nel reparto maschile con attrici non “bone”, ma brave a far da spalla.
A Filippo, noto giornalista televisivo specializzato in divulgazione scientifica, affidano, anche per punirne la fantasiosa boria, un servizio in un’isoletta delle Canarie dove uno stormo di cicogne si è stabilito in cima a un vulcano spento. Con Enrico, il cameraman che l’accompagna, è costretto a vivere a tempo indeterminato la stessa prima giornata. L’incubo gli fa cambiare carattere. Caso più unico che raro, è il libero rifacimento di una bizzarra commedia filosofica americana, Ricomincio da capo (1993). Scritto dal regista con V. Capecci, A. Koppel e F. Bonifacci. Pur inferiore all’originale, che è un bell’esempio di commedia di idee, il 2° lungometraggio di Manfredonia, nipote di Luigi Comencini, ha un suo garbo leggero e permette al duttile A. Albanese di sfoderare tutte le sue maschere anche se riduce la complessità metaforica della sceneggiatura di Danny Robin-Ramis a una sola lezione: le giornate possono sembrarci tutte uguali o diverse a secondo del modo con cui le viviamo, aprendoci agli altri o barricandoci nel nostro egoismo.
Un mafioso fa evadere dal carcere un famoso gangster per averlo alleato in una impresa criminale; quando si rende conto che la casa da gioco presa di mira appartiene alla mafia, fa di tutto per mandare a monte il piano; ma il compare agisce egualmente, si impossessa del vistoso malloppo e tenta di fuggire con la bella moglie; verranno uccisi entrambi prima di riuscire a condurre a termine l’impresa. Da un “giallo” di Ovid Demaris.
Ritratto di un giovane fascista che s’arruola nella X Mas della Repubblica di Salò e della sua tormentata presa di coscienza. Opera prima di G. Montaldo, è il migliore dei rari film italiani sul periodo 1943-45 visto dalla parte dei fascisti repubblichini. La sincerità di fondo riscatta qualche ingenuità e lo schematismo didattico dell’impianto: Montaldo è così preoccupato di spiegare l’epoca che si è dimenticato di raccontarla. Direzione di attori insufficiente. Da un romanzo (1956) di Giose Rimanelli, liberamente rimaneggiato.
Tratta dall’omonimo romanzo di Ennio Flaiano, che è stato anche grande collaboratore di Fellini, ecco la storia di Silvestri, tenente italiano in Etiopia a metà degli anni Trenta. Ossessionato dal pensiero di aver ucciso una giovane indigena l’uomo è sul punto di perdere la ragione. Purtroppo la materia fortemente letteraria dei dialoghi é rimasta, molto simile al testo originale e ne soffre il realismo. Gli attori pur volenterosi sono fuori ruolo e Cage a disagio più di tutti.
Un giovane industriale non s’accontenta del piccolo stabilimento tessile di cui è proprietario e dà il via a grossi progetti che minacciano di rovinarlo finanziariamente. Mentre i suoi affari vanno a rotoli, scopre che la moglie lo tradisce con uno studente.
Scritto dal genovese Montaldo, attivo dal 1961, con la moglie Vera Pescarolo e il prolifico Andrea Purgatori, è un film di esplicita denuncia etico-sociale dove vale la forma più che i contenuti. Nicola Ranieri, proprietario a Torino delle Officine Meccaniche ereditate dal padre, è sull’orlo del fallimento. Da 8 anni sposato senza figli con Laura, come lui ricca borghese, sospetta che lo tradisca con un baldanzoso garagista, ma non si rende conto di essere fallito anche come marito. Invece di raccontare cause, responsabilità, rapporti con i 70 operai che Nicola non può più pagare e rischiano di perdere il lavoro, Montaldo scarica tutto genericamente sulla recessione che affligge da anni l’Italia e l’Europa e sullo strozzinaggio delle banche e delle assicurazioni e dedica molto, troppo spazio alla sua gelosia. Non manca nemmeno una lieta fine in cui, praticando l’antica, italica arte dell’arrangiarsi, si mette sullo stesso piano dei suoi supposti persecutori. All’attivo rimangono la bravura di Favino (un po’ meno quella della Crescentini in un personaggio contraddittorio), le livide luci e i colori di Arnaldo Catinari, il talento dello scenografo Francesco Frigeri. Tirate le somme, è un film formalista.
Scorribanda attraverso la storia del glorioso istituto Luce, nato nel 1924, e testimone di tutti i fatti italiani fino alla fine della guerra (dove si ferma il film) e oltre. Presentato alla mostra di Venezia nella sezione Immagini fra cronaca e storia. Il regista e lo sceneggiatore Ernesto G. Laura non portano niente di nuovo. La loro tesi è che le immagini portano comunque una verità affrancata da regimi e condizionamenti. Ma non è una tesi nuova.
Un vecchio professore vicino alla pensione architetta il colpo grosso: un colossale furto con l’aiuto di alcuni specialisti del crimine. Il colpo riesce, ma gli autori si ammazzano tra di loro oppure vengono abbattuti dalla polizia. Ma il vecchietto aveva previsto tutto.
Vittorio, amico d’infanzia dell’industriale Nicola, lavora per lui come portavalori e prestanome. Ferito nel corso di una rapina, Vittorio viene sostituito (come portavalori) da un ex poliziotto. Frattanto impara a sparare molto bene con la pistola e vince diverse gare di tiro.
Tre aviatori inglesi, atterrati in Francia nel 1942 col paracadute, sfuggono ai tedeschi grazie all’aiuto dei francesi e a una forte dose di fortuna. Film d’inseguimento in cadenze di farsa, condotto a ritmo forsennato, con una bella squadra di comici tra cui spicca l’esagitato L. de Funès. Record d’incassi in Francia tra i film sull’occupazione anche se _ o proprio perché _ ribadisce il falso mito e gli stereotipi della Francia unita contro i tedeschi. Scritto da Oury con M. Jullian e, per la prima volta, da sua figlia Danièle Thompson.
Un paesino è dominato da una banda di furfanti che eleggono come sceriffo un vecchio ubriacone. Questi, in un risveglio di dignità, chiama in aiuto il figlio d’un famoso pistolero pensando che sia degna progenie del padre, ma invece il giovane ostenta d’odiare le pistole. Disperazione degli onesti. Il ragazzo, però, è estremamente astuto e riuscirà a trovare le prove per incastrare i banditi. Inoltre, quando i fuorilegge uccideranno l’ubriacone, farà vedere di essere in gamba anche coi pugni e con le armi.
Marechal, piazzista un po’ sempliciotto, riceve da un uomo d’affari l’incarico di andare a Napoli e prendere in consegna una Cadillac da portare in Francia. Marechal naturalmente non conosce l’effettivo contenuto della vettura.
Il fiume Inguri segna il confine naturale tra la Georgia e la Repubblica di Abkhazia. I secessionisti hanno reclamato questa porzione del paese, cacciando brutalmente i georgiani che la abitavano. Proprio lungo questa tormentata frontiera, in primavera, lo scioglimento del ghiaccio dà vita a piccole isole itineranti, che si fanno e si disfano a seconda delle stagioni e dei capricci della natura. Un vecchio contadino e sua nipote adolescente si installano in questa terra di nessuno, costruendo una precaria baracca di legno, per coltivarvi il necessario per sopravvivere al rigido inverno. Quando sull’isola compare un ribelle ferito, il già fragile equilibrio di questa insolita coppia si spezza pericolosamente. Quello diretto dal georgiano George Ovashvili è un film che indaga tra le pieghe dei conflitti. In primo luogo, il difficile rapporto tra uomo e natura, cristallizzato nel tentativo ancestrale di dominare, a mani nude, un ambiente riottoso, pronto a sottrarre con violenza ciò che un attimo prima aveva dato. In seconda battuta, c’è la lotta fratricida tra due popoli, che si manifesta nella presenza dei soldati georgiani che pattugliano il confine con le loro barchette, alla ricerca dei ribelli. Sopraggiungono molesti, così come il rumore degli spari nella notte, a turbare la quiete della vita del contadino, scandita solo dai ritmi di un lavoro paziente, in balia della natura. Il terzo contrasto, non meno importante, è quello tra la prudente saggezza dell’uomo anziano e l’incosciente desiderio di emozioni della nipote sulla soglia dell’adolescenza. La routine lenta e faticosa che li unisce, al contempo li divide, determinando il sentore strisciante di una deflagrazione che non si consuma mai veramente. Almeno non a parole, in un’opera dove gli sguardi, le inquadrature – carrellate o movimenti di macchina a mano – e la fotografia in 35 mm – contano molto più dei dialoghi, ridotti all’osso per l’intera durata del film. Un film da festival, in cui la sceneggiatura è scarna, al pari delle battute, e il ritmo è dilatato. Un film dove l’immagine ha la meglio sulla parola, esibendoci, in tutto il suo crudele splendore, una natura tanto generosa quanto capricciosa. Il regista ce la mostra con estremo realismo, ai limiti del documentario. I due attori protagonisti contribuiscono a rafforzare questa poetica del reale, agendo davanti alla macchina da presa con grande naturalezza, parlando solo con gli occhi: solcato, lui, dalla fatica dell’età e dalle intemperie della vita – ma nonostante tutto determinato e teneramente preoccupato per la nipote – e animata, lei, da un bisogno di vita che la spaventa e la incoraggia al contempo. In questo deserto di comunicazione, non è tanto la parola a mancare, quanto le risposte alle domande che questa storia incompiuta di uomini suscita. Curiosità e desiderio di emozioni più forti che il regista non soddisfa, interessato più ai capricci della natura che a quelli degli uomini.
Una ragazza eredita un castello che ha la fama di essere abitato dagli spettri. La ragazza vuol vederci chiaro e si reca sul posto accompagnata dal fidanzato, goffo e pusillanime, ma reso coraggioso dall’amore. Dopo qualche notte di paura i due risolvono il mistero. Non ci sono fantasmi: è tutta una messinscena di un tale che vuole mettere le mani su un tesoro nascosto nel castello e che non vuole intrusi.
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