Convinto di essere stato scambiato nella culla con un altro bambino, quindi di essere cresciuto in una famiglia non sua e di aver vissuto la vita di un altro, Thomas – chiamato con il vezzeggiativo di Toto – ospite nel 2027 di una casa di riposo, fantastica di uccidere colui che gli ha rubato la vita, Alfred, ricco e potente. Opera prima del belga Van Dormael (1957), il film è narrato con una serie di sconnessioni temporali, secondo il libero flusso dei ricordi e delle associazioni mentali di Thomas. È una storia sotto il segno della morte, ma sorvegliata dagli angeli custodi di un’allegra ironia e di un bizzarro umorismo, molto fiammingo anche nei suoi estri surreali, che le conferiscono un indubbio fascino e l’hanno reso uno dei film più premiati, ammirati e un po’ sopravvalutati del 1991.
Il signor Nemo è un vecchio ultracentenario ed è il protagonista di un reality che segue in diretta gli ultimi giorni (mesi, anni) della sua vita. Perché tanto interesse? Perché Nemo è l’ultimo essere mortale rimasto sul nostro pianeta da quando le scoperte scientifiche hanno consentito di raggiungere la quasi immortalità. Nemo però ricorda ben poco della sua vita passata, una vita che non è una ma molteplice.
Quello di Victoria è il più esteso lago tropicale del mondo (68 800 kmq), compreso tra Uganda, Kenya e Tanzania. Nel 1962, “per fare un esperimento”, vi fu introdotto qualche pesce persico del Nilo. Nel giro di venti anni il vorace predatore provocò l’estinzione di quasi tutta la fauna ittica, assunse dimensioni da squalo cannibale e trasformò l’ecosistema della regione, l’assetto sociale e le abitudini alimentari degli indigeni. Nacque un’industria che esporta i filetti di pesce persico in mezzo mondo. Quasi ogni giorno all’aeroporto di Mwanza (Tanzania) atterra un cargo russo Antonov che riparte con un carico di cinquanta tonnellate di pesce. Non è, però, un documentario ittico quello che Sauper, tirolese giramondo con casa a Parigi, ha girato tra molte difficoltà, tangenti da pagare e rischi con una piccola telecamera e un aiutoregista. Altrimenti non avrebbe vinto, dopo 3 anni di lavoro, 16 premi (uno a Venezia 2004 nelle Giornate degli Autori) e una nomina all’Oscar 2005. Il pesce persico diventa una metafora del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale. Gli aerei non arrivano vuoti a Mwanza, come i razzisti, panciuti piloti ucraini dicono: trasportano kalashnikov, napalm e munizioni per rifornire le guerre civili che dagli anni ’80 devastano il cuore (di tenebra) dell’Africa. Diseguale, sconnesso, impressionistico nella prima ora, sull’orlo del miserabilismo, diventa poi uno sconvolgente rapporto con crude immagini: sterminate distese del pesce scartato che i poveri indigeni friggono e mangiano; ragazze che campano prostituendosi per pochi dollari agli alieni della civiltà occidentale; bambini che sniffano colla; ragazzini che a nuoto spingono i pesci nelle reti; il guardiano che spera nell’arrivo di una guerra di cui profitterebbero in molti.
Il film ha alle spalle una versione teatrale di successo (scritta dallo stesso Gallienne) che affronta l’argomento del coming out all’incontrario: è la storia di una famiglia altoborghese, con una madre vedova autoritaria che ha 3 figli maschi, uno dei quali (secondo lei, un omosessuale) è in cerca della sua identità sessuale e dovrebbe esplorare il suo percorso verso la verità, comportandosi cioè come una donna, diventando sua madre per poi riuscire a diventare sé stesso. Sul palcoscenico Guillaume forniva una prova di estremo virtuosismo interpretando tutti i ruoli: nel film si limita ai 2 principali: sé stesso e la madre. È un film almodovariano, ma senza la stessa sfacciataggine allegra. Con un occhio, dichiarato dall’autore, a Billy Wilder.
Un vagabondo di nome Jens arriva nei pressi di un villaggio lussemburghese. È di origine tedesca e non parla la lingua del posto, pertanto viene trattato con freddezza, finché non incontra la figlia del sindaco, Lucy, che se lo porta a letto. Il mattino dopo il padre della giovane accompagna Jens in giro per il villaggio, gli trova lavoro presso un fattore e presto lo invita anche a cena. La comunità sembra accoglierlo senza fare domande e fin troppo calorosamente, anche perché Jens trova nel camper dove alloggia oggetti lasciati da qualcuno prima di lui. Si tratta dello scomparso Georges, che viveva in una casa vicina e forse aveva fotografato nude le donne sposate del paese.
Dio è un essere volgare che tiranneggia la moglie e i figli e governa il mondo con il computer in base al principio “odia il prossimo tuo”. JC, il figlio maggiore, è fuggito e ha cercato di rimediare agli errori del padre, ma ha fallito. Ci riprova Ea, la figlia di 10 anni, che invia a tutti gli uomini una mail con la loro data di morte. “Fu giudicato da molti il film più delirante presentato quest’anno a Cannes” (Guillaume Gas). Opera d’arte cinematografica totale che fluisce e refluisce continuamente dal comico al tragico, dal dramma alla satira, dall’ironia alla poesia, dall’iperreale al surreale, dal grottesco all’epico, in un fuoco d’artificio di invenzioni narrative, figurative e registiche di altissimo livello che sorprendono e spiazzano fino a rapirti nella visione e a trasportarti nella dimensione della pura fantasia. L’assunto di partenza – l’esistenza di un Dio sadico che si diverte a torturare gli uomini – può sembrare un’idea balzana: si tratta invece di un’eresia gnostica risalente al I secolo a.C., che fu ripresa nel XII dalla chiesa dei catari, poi annientata con una crociata (1208) dalla chiesa cattolica.
Jean-Christophe è una guardia carceraria che conduce una vita priva di sorprese dividendosi tra il lavoro in prigione e la sua abitazione in cui ha come unica compagnia un pesce rosso. Si iscrive ad un corso di tango e lì fa la conoscenza di una giovane donna, Alice, che attrae la sua attenzione. La ritroverà nel parlatorio del penitenziario a colloquio con due detenuti. Uno, Fernand, è suo marito e l’altro, Dominic, è l’amante. Frédéric Fonteyne fin dal suo esordio con Una relazione privata ha mostrato il suo interesse per la complessità delle relazioni amorose che si possono instaurare tra uomini e donne. Il suo pregio più rilevante, oltre a una costante ricerca estetica, era costituito dal ‘non detto’. Il passato dei personaggi e il loro stesso milieu culturale stavano sullo sfondo. Ciò che contava era il loro esserci ‘qui ed ora’ con, in quel caso, una fantasia sessuale da soddisfare della quale lo spettatore non sarebbe mai venuto a conoscenza. È un peccato che dal film successivo La donna di Gilles abbia ceduto alla tendenza del raccontare troppo; difetto presente anche in questo film, in particolare nella parte finale. Perché fino a quel punto si è attratti da come regista e attori riescano a rendere credibile l’intreccio di relazioni che Alice gestisce con una capacità di seduzione che il tango porta all’ennesima potenza. È attraverso le sue figure e la sua conclamata carica erotica che la danza fa breccia nel grigiore dell’esistenza di Jean-Christophe finendo con il fare da ponte tra l’esterno e l’interno delle mura carcerarie. Perché Fernand, accortosi dell’interesse della guardia, vuole continuare ad essere l’uomo di Alice e quindi chiede a un detenuto argentino di insegnargli i passi. L’iniziale dileggio machista degli altri carcerati finisce con il trasformarsi in una condivisione di passi e di regole che invece che costringere lasciano spazio a una forza dirompente e liberatoria. Fonteyne pedina le reazioni, anche violente, dei suoi personaggi ma, ancora una volta, si lascia tentare dal sovraccaricare il soggetto (scritto insieme all’attrice protagonista e basato in parte su dati biografici) inserendo la figura del figlio adolescente di Alice che sarebbe bastata da sola per un intero altro film e che finisce invece per sfiorare la retorica alterando quella che si presentava come l’intrigante ed elegante fluidità di un passo a quattro.
Jenny sta per lasciare l’ambulatorio presso cui lavora in seguito alla interessante e remunerata offerta di lavoro che le hanno fatto. Una notte, dopo l’ora di chiusura, decide di non aprire a chi sta imperiosamente suonando. Il giorno successivo viene trovato il cadavere senza identità di una ragazza e il video di sorveglianza mostra che era la donna a cui non ha aperto. Jenny è ossessionata dal bisogno di scoprire chi era e che cosa è successo. È il senso di colpa che muove la dottoressa protagonista – personaggio di cui non si sa pressoché nulla – di un film raccontato e sviluppato come un thriller, sullo sfondo di una società sempre più arida e individualista, dove l’umanità è indifferente (quando non cattiva), assente, priva di solidarietà. Nonostante la brava Haenel, non è del tutto riuscito. Giustamente battuto da Loach a Cannes 2016.
A Liegi il 13enne Cyril Catoul vive, insofferente, in un centro di accoglienza per l’infanzia dove l’ha lasciato il padre cuoco Guy che vuole rifarsi una vita senza di lui. Cocciuto e violento, Cyril non si arrende ai fatti: vuole vivere col padre. Senza un motivo preciso, la parrucchiera Samantha gli si affeziona e lo tiene con sé nei weekend. È lei a cambiare la vita a questo ragazzino abbandonato che in bicicletta rincorre l’amore senza saperlo. È il film più semplice e luminoso dei fratelli Dardenne che preferiscono i comportamenti alla psicologia: il più tenero, quasi una favola con i “cattivi” che fanno perdere le illusioni al ragazzino e Samantha come fata benefica. È un conciso film sui sentimenti senza una briciola di sentimentalismo. Nato nel dicembre 1996, Doret è un gamin au vélo indimenticabile. La belga De France si è messa, con grazia leggera e solare, “a disposizione” del piccolo eroe fuggitivo. È una donna di classe. Distribuito da Lucky Red.
Proprietario di una falegnameria che funziona come centro di formazione professionale, il gentile e laborioso Olivier (Gourmet) accoglie tra i suoi allievi il sedicenne Francis (Marinne), reduce da cinque anni di riformatorio che, dopo averlo conosciuto, gli chiede di diventare suo tutore, non sapendo che è il padre del ragazzino da lui ucciso cinque anni prima. L’intreccio del 3° film dei fratelli Dardenne “è il personaggio, opaco, enigmatico. Forse è l’attore stesso” (Gourmet fu premiato a Cannes 2002). Braccato dalla cinepresa (una recente A-Minima) che gli sta incollata addosso, spesso alle spalle, Olivier è il raro caso di un personaggio inseparabile dalla suspense angosciosa che imbeve lo spettatore, costretto moralmente a immedesimarsi con lui anche nella prima ora abbondante in cui ignora la natura del suo rapporto con il ragazzo. I Dardenne “continuano a togliere, ad asciugare trama, dialoghi e décor. E più tolgono, più il risultato è potente” (F. Tassi). Cinema lucido, concreto – “La verità è concreta” (B. Brecht) – preciso nei particolari, fatto di sguardi, con un uso della cinepresa a spalla che raramente è stato così fluido, funzionale, espressivo. Si chiama Il figlio . Poteva chiamarsi Il padre . Fotografia: Alain Marcoen. Senza musica.
Una piccola azienda che realizza pannelli solari offre un bonus di 1000 euro agli impiegati che voteranno per il licenziamento di Sandra, anello debole della catena produttiva per trascorsi di depressione. Lei combatte, appoggiata dal marito, e contatta uno per uno i colleghi per portarli dalla sua parte. Il tema del lavoro è spesso presente nei film dei registi che qui raccontano una storia di potere subdolo che delega decisioni ingiuste alle vittime stesse, di guerra tra poveri, ma anche di solidarietà, realistica, priva di facile buonismo (alcuni degli interpellati cambiano idea, altri si irrigidiscono ancora di più contro di lei). E al centro c’è un personaggio di donna fragile, insicura, facile alle lacrime, che nel suo percorso di ricerca della solidarietà cresce facendo crescere gli altri e ne esce rafforzata senza alcun cedimento alla retorica. La Cotillard esagera in mobilità facciale, ma è perdonabile.
1905. Angel è una ragazza orfana che vive con la madre che gestisce un negozio di drogheria nella Londra operaia. Angel ha una passione: scrivere. I suoi romanzi sono… ricchi di colpi di scena e si alimentano di una vita da lei soltanto immaginata. Un giorno riesce a trovare un editore e da quel momento per lei tutto cambia. Ogni suo nuovo libro vende copie su copie e la ricchezza diventa per lei così tangibile da consentirle di comprare la dimora dei suoi sogni “Paradise”. La sua però è letteratura popolare così come “popolari” sono i suoi gusti nell’arredare il suo “castello”. Tutto procede per il meglio finché non si innamora, ricambiata, di un pittore che vede il mondo esattamente al contrario: grigio e spento. “Angel” è il titolo di un romanzo pubblicato nel 1957 dalla scrittrice inglese Elizabeth Taylor (un puro e semplice caso di omonimia con l’attrice). Un romanzo che Ozon ha letto cinque anni fa e lo ha attratto perché nella protagonista ha rivisto le eroine di tanto cinema degli anni Trenta e Quaranta. Angel è sempre sopra le righe, manca di buon gusto o, meglio, ha dei gusti che piacciono alle masse e non all’aristocrazia. Per lei la vita è un susseguirsi di passioni intense e di note sfavillanti. Ozon si è così trovato di fronte l’occasione per rileggere un cinema che non c’è più. A differenza di Soderbergh non si è però dedicato solo a una ricostruzione filologicamente accurata (che peraltro c’è e che gli appassionati di cinema potranno gustare). Ha anche lavorato sui personaggi spingendo il pubblico a seguirne le pur esplicitamente romanzesche vicende. Questa lettura a doppio livello lo ha spinto a depurare il personaggio della protagonista di buona parte dell’ironia con cui l’autrice del libro la descriveva: “Non è possibile seguire per due ore un personaggio solo ironizzando su di lui” ha affermato. “È importante esserne anche affascinati. Scarlett O’Hara è la protagonista a cui ho pensato. Come dicono gli inglesi ‘la ami e la odi allo stesso tempo’”. Ne è nato così un film che ha il fascino del passato riletto attraverso lo sguardo lucido di un regista che ci ha abituato ormai a una sorpresa ad ogni film. Per Ozon il gusto della ricerca non ha mai fine e Romola Garai, un nome che sentiremo sempre più spesso, gli offre un importante contributo.
Nel quieto Belgio agreste, Didier, cantante in un apprezzato ensemble di country bluegrass, ed Elise s’incontrano, si scelgono, si amano, mettono al mondo una figlia. La loro storia procede a sbalzi tra frammenti di un passato luminoso e un presente dolente, segnato dalla leucemia che colpisce la bimba e la loro unione. Storia d’amore e di dolore che parla non tanto di malattia quanto dell’effetto che la malattia ha sugli esseri umani e sulle relazioni: Elise si rifugia nella religione e i due si allontanano irrimediabilmente l’uno dall’altra. Narrato con un intreccio di passato, remoto e prossimo, e presente, e assai bene interpretato dai 2 credibili protagonisti, fa riflettere sul senso della vita, sull’accettazione della morte, sul ruolo della religione e del “credo” nell’esistenza dei vulnerabili esseri umani.
Medhi è affidato alle cure della mamma Amina e del nonno Ahmed, perché suo padre lavora in Francia. O meglio, questo è quello che i due gli fanno credere per non turbare il suo fragile equilibrio – suo padre è in realtà in prigione. Medhi ha il “difficile” compito, a scuola, di custodire la sedia del maestro, e le sue relazioni con gli altri bambini ruotano attorno a questo compito.
Un film di Eyal Sivan. Titolo originale Un spécialiste, portrait d’un criminel moderne. Documentario, durata 128 min. – Francia, Germania, Belgio, Israele, Austria 1999.
Montaggio di 2 delle 350 ore del processo ad Adolf Eichmann facendo riferimento al libro di Hannah Arendt La banalità del male. Uno dei più determinati criminali di guerra appare come un essere mediocre, che ha ‘eseguito il proprio lavoro’ con metodica e burocratica applicazione.
Estate a Parigi. Il quindicenne Vincent si rifiuta di partecipare alle torture dei suoi compagni sui ratti o alla vendita di sperma su Internet. Vive con la madre single, Marie, e vorrebbe scoprire chi è suo padre. Le sue indagini lo portano ad una famosa casa editrice dove conosce Giuseppe, figura che cambierà la sua vita in un lampo.
Antoine, fotografo felicemente disilluso, ha come solo amico Matèo, il giovane figlio del vicino di casa spesso assente, a cui dà un’educazione fantasiosa. Una mattina, le note di pianoforte che provengono dal palazzo di fronte catturano l’attenzione di Antoine, che ignora che a suonare è la studentessa Elena. Con il suo atteggiamento idealista e intransigente, Elena sarà colei che cambierà per sempre il resto della vita di Antoine, permettendogli di trovare finalmente il suo posto sulla terra.
Il ventenne Marc lavora come assistente parrucchiere in un grande salone frequentato da facoltose signore, nutrendo il sogno di diventare pilota da corsa. Per essere ammesso all’imminente competizione deve, tuttavia, procurarsi una Porsche 911 S: tenterà di ottenerla con ogni mezzo a sua disposizione, anche impegnando i capelli di una ragazza, forse, innamorata di lui. Nello stesso anno di Mani in alto!, il suo quarto lungometraggio bloccato dalla censura polacca, Jerzy Skolimowski gira in Belgio Il vergine, attirando su su di sé l’attenzione della critica internazionale. In breve, si tratta di un nuovo debutto, di una rinascita benedetta dal sole abbagliante della Nouvelle Vague, non soltanto per la presenza fisica di Jean-Pierre Léaud, perfettamente capace di comunicare insicurezza e determinazione, timidezza e una vena di sana follia.
Chi ama l’umorismo di situazione di Tati e la comicità impassibile di Keaton, non perda questo film del palestinese Suleiman. Dai racconti del padre e dalle lettere della madre l’autore ha allineato 4 episodi familiari, situati a Nazareth nel 1948, nel 1970, nel 1980 e a Ramallah oggi. Ha un sottotitolo: Arab-Israelis , il termine ufficiale con cui gli israeliani indicano i palestinesi rimasti sulla loro terra. Tolto l’episodio del ’48, esplicitamente realistico e antisraeliano, è una commedia dove la violenza non è quasi mai esibita, ma una presenza costante con una catena di gag che spesso trovano nella ripetizione la fonte della loro buffoneria. È il ritorno di Suleiman, dopo anni di esilio, nella parte di sé stesso che continua a tacere perché, spiega da regista, il silenzio è molto cinegenico, un’arma di resistenza che destabilizza e fa impazzire i potenti.
Paulo è un giovane pianista che lavora alla Cineteca di Bruxelles, eseguendo gli accompagnamenti musicali dei film muti. Vive con la fidanzata un rapporto che non conosce passione. Quando incontra Ilir, un giovane di origine albanese, il suo piccolo e rassicurante universo viene sconvolto. Bassista in un gruppo rock, sensuale, spavaldo e dannato, Ilir irrompe come un terremoto nella vita dell’insicuro e fragile Paulo, spingendolo a prendere coscienza della sua omosessualità. Il percorso di formazione di un uomo alla ricerca dell’amore, ma soprattutto della sua vera identità. È la più classica delle storie, quella raccontata dal regista David Lambert. Chiaramente, in Hors les murs la tematica legata alla condizione omosessuale funge da trait d’union e carica di senso ulteriore ogni singola sequenza. Tuttavia, la crescita del protagonista potrebbe coincidere con quella di qualsiasi uomo o donna alle prese con la faticosa e spesso travagliata ricerca del proprio posto nel mondo. L’iniziazione sessuale e sentimentale di Paulo non è altro che un’iniziazione alla vita, con tutto ciò che questa comporta: dolore, senso di inadeguatezza, difficoltà nell’accettarsi, ma anche gioia e soprattutto autenticità. Solo dopo aver gettato ogni maschera è possibile donarsi completamente a un’altra persona e confessarle il proprio bisogno di cura. Ma non può esserci libertà in un rapporto basato sulla dipendenza e sull’ossessione di annientare nell’altro le proprie fragilità. Va da sé che la storia d’amore tra Paulo e Ilir conoscerà picchi di esaltazione e brusche cadute, in un incessante saliscendi dal paradiso all’inferno. Merito della sceneggiatura prima e della regia poi quello di spingere sull’acceleratore delle emozioni, senza mai banalizzare o involgarire, facendo vivere allo spettatore il turbinio della passione che satura e lacera i due amanti, con la complicità di un accompagnamento rock intimista che accentua e valorizza la sensualità o lo strazio di alcune scene. Altro pregio del film è la rappresentazione dell’omosessualità come condizione intrisa di normalità: straordinario e fuori dal comune – sembra dirci il regista – non è l’attrazione verso una persona dello stesso sesso, ma l’amore in sé, con la sua carica dirompente in grado di rivoluzionare universi assestati. Sia Paulo che Ilir crescono nell’incontro reciproco e hanno qualcosa da imparare l’uno dall’altro: il primo, così incline alla sofferenza, ha bisogno di acquisire sicurezza e indipendenza, di amarsi un po’ di più; il secondo, all’apparenza forte e deciso, deve apprendere a superare la paura di amare e donarsi.
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