Sul ritmo di Rock Around the Clook , la notte brava di 4 adolescenti californiani nell’estate 1962, mentre la guerra del Vietnam bussa alle porte. Uno dei migliori risultati dell’operazione nostalgia a Hollywood: ricco di simpatia con qualche momento d’incanto malinconico, un gruppetto di attori spontanei anche se goffamente doppiati. Rimarrà come documento sociologico. 5 nomination agli Oscar.
Reduce da un ospedale psichiatrico, un uomo tenta di ricostruire la propria esistenza accanto alla figlia e alla moglie. Quest’ultima però non intende aiutarlo in alcun modo, mentre la figlia dedica tutta se stessa al reinserimento del padre nella vita normale.
Divorziato che vive (quasi felicemente) da solo ospita un amico, ancora dolorante per la sua recente separazione, ma la convivenza si trasforma in una specie di matrimonio di cui ha gli inconvenienti più che i vantaggi. Scritto da Neil Simon che adattò un suo grande successo (1965) di Broadway, è il raro caso di una commedia che migliora passando dal palcoscenico allo schermo. Scontati gli elogi ai 2 protagonisti e ai loro comprimari, almeno una parte del merito spetta a G. Saks.
Da un romanzo di Dorothy B. Hughes: reduce di guerra, Dixon Steele è uno sceneggiatore di Hollywood in crisi, soggetto a inconsulti scoppi di violenza. Sospettato dell’assassinio di una ragazza, è discolpato da una vicina di casa che s’innamora di lui, ricambiata, ma la loro diventa presto una relazione tempestosa. Sul tema della violenza nei rapporti umani _ che gli era caro _ Ray ha fatto uno dei suoi film più intensi, originali e “puri”, una bella metafora sulla creazione artistica, ammirevole “per il gusto tutto elisabettiano nel mescolare temi, forme e personaggi popolari … con aspirazioni più colte” (S. Masi). Ottimo Bogart, che produsse il film con la sua società, straordinaria G. Grahame che in quel periodo stava per divorziare dal regista.
A causa della suocera e di un intraprendente vicino di casa, due freschi sposini cominciano a litigare. La riconciliazione avviene nel parco. È lui quello a piedi nudi. La divertente e tenera commedia di Neil Simon, grande successo di Broadway, passa senza danni sullo schermo. Redford meglio della Fonda. Meglio di tutti la Natwick come mammà.
Infermiere di trincea nella Guerra di secessione, stremato dalle violenze efferate anche di una parte corrotta dell’esercito che saccheggia le fattorie, il sudista Newton Knight diserta e inizia una vita da ricercato, insieme a ex schiavi neri fuggiti dalle piantagioni. Nelle paludi del Mississippi, novello Robin Hood, alla testa di un piccolo esercito di ribelli, saccheggia i convogli militari. Dopo un’epica battaglia a Ellisville nel 1864, crea la libera contea di Jones, con tanto di Carta dei Diritti, di stampo cristiano/socialista. A tratti ci informano che 85 anni dopo un lontano discendente di Newton (con una percentuale di sangue nero) è condannato per aver sposato una donna bianca. Ross produce, scrive e dirige un lungo film istruttivo e si serve di tutti i mezzi più prevedibili, già visti, retorici. È utile perché la battaglia per i diritti dei neri non è ancora finita, anche se le buone intenzioni – di per sé – non fanno un bel film. Flop in patria.
Un uomo che ha perduto la moglie in un naufragio sette anni prima sta per risposarsi quando la defunta ricompare. La situazione si fa ancora più imbarazzante per il bigamo involontario quando si scopre che la rediviva ha dovuto passare tutto quel tempo in un’isola deserta in compagnia di un altro superstite.
Los Angeles. Due rapinatori, Zucchino e Coniglietta, decidono di mettere in atto il prossimo colpo nella caffetteria in cui stanno facendo colazione. I killer Vincent Vega e Jules Winnfield recuperano una valigetta dal contenuto segreto, puliscono la loro macchina insozzata del sangue di uno spacciatore con l’aiuto di Mr. Wolf e finiscono nel locale della prima storia. Vincent Vega deve portare a ballare Mia, la moglie del boss Marsellus Wallace, dalla quale è subito attratto. Il pugile Butch dovrebbe cadere al tappeto in un incontro truccato, ma l’orgoglio glielo impedisce. Opera spartiacque nel cinema degli anni Novanta, Pulp Fiction ha rivelato al mondo il talento di Quentin Tarantino, già regista del pregevole Le iene e sceneggiatore per Tony Scott (Una vita al massimo) o, in quello stesso memorabile anno, per Oliver Stone (Assassini nati). Tanto la consacrazione a Cannes, dove fu premiato con una meritata Palma d’oro, quanto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, da dividere con l’ex amico Roger Avary, poco rendono l’idea dell’influenza avuta da un film-fenomeno che è stato in grado di attuare una vera “tarantinizzazione” del modo di raccontare su grande schermo. Con una capacità incomparabile di mescolare alto e basso, generi e loro riscrittura, il regista poco più che trentenne orchestra un capolavoro pop fatto di citazioni e rimandi interni con il fine primo di traghettare lo sguardo in un gioco, di godibilissima fattura, in cui la forma della “digressione” la fa da padrone, dando nuova vita a situazioni cinematografiche ultra-classiche. Il divertimento si mescola alla violenza efferata, moltissime all’epoca le polemiche che seguirono a ruota il successo, il dialogo brillante alla drammaticità delle situazioni messe in scena (su tutte una folle sequenza ambientata nel retro di un negozio di pegni), mentre il tempo e lo spazio subiscono giravolte, facendo chiedere di continuo allo spettatore a che punto e in quale luogo ci si trova nella complessità della storia. A partire dal titolo riferibile a quelle riviste popolari (“Pulp Magazines”) sulla cui carta scadente erano raccontate novelle dei generi più disparati, dal poliziesco allo sportivo fino al western, Pulp Fiction frulla insieme stimoli della cultura popolare e del cinema di tutte le latitudini: dagli incastri di Robert Altman agli umori neri di Martin Scorsese, Sam Peckinpah e Arthur Penn, dalla violenza coreografata di Sergio Leone e John Woo fino a quel “poliziottesco” italiano, con Fernando Di Leo e Enzo G. Castellari in testa, di cui Tarantino è da sempre fanatico. Tra le sequenze entrate nella storia citiamo il ballo tra Vincent Vega e Mia Wallace al “Jack Rabbit Slim’s” sulle note di You Never Can Tell di Chuck Berry. Colonna sonora epocale e attori, quasi tutti, in stato di grazia.Ottima la fotografia di Andrzej Sekula. Un cult.
Un evaso da un campo di concentramento nazista, scampato miracolosamente alla cattura, si sente ormai privo di volontà. Ma, aiutato da un giovane operaio, si rimette in contatto con i capi della resistenza e ritrova la voglia di combattere.
Ventisei anni dopo la prodigiosa nascita di un bimbo in una mangiatoia di Betlemme, la Giudea è una delle province ribelli dell’impero romano. A prendere il comando militare della guarnigione di Gerusalemme è il tribuno Messala, caro amico d’infanzia di uno dei più nobili principi giudei, Judah Ben-Hur. Ma l’entusiasmo iniziale per l’amicizia ritrovata si converte ben presto in conflitto quando Ben-Hur rifiuta di tradire il suo popolo in nome di Roma. Un incidente avvenuto durante la cerimonia d’ingresso alla città del governatore è l’occasione di Messala per dimostrare la propria fermezza agli occhi del popolo in rivolta e a quelli del potere imperiale: pur conoscendone l’innocenza, il tribuno fa arrestare l’amico assieme alla madre e alla sorella. Mentre viene trascinato via per essere condotto alle galee dove servirà come schiavo, Ben-Hur promette vendetta.
Egocentrico, borioso e odioso giornalista specialista in meteorologia, a Punxsutawney (Pennsylvania) per l’annuale Festa della Marmotta, è costretto a rivivere, senza sosta, all’infinito, la stessa giornata. L’incubo gli cambia la vita. Commedia filosofica e sentimentale che parte da una buona idea, sceneggiata con intelligenza senza cadere nel ripetitivo e sostenuta da una sapiente regia: attori ben diretti, buona ambientazione della provincia americana, montaggio funzionale, capacità di mescolare i toni umoristici con quelli grotteschi.
In un imprecisato anno della preistoria i superstiti di un’isola distrutta dalle eruzioni vulcaniche tentano di convincere una tribù, sottoposta come loro a questo pericolo, a trasferirsi sul continente. Gli altri si schermiscono e li gettano in una fossa. I nostri si salvano, rapiscono le donne e raggiungono il loro obiettivo.
Devota della chiesa battista, una vecchia e vispa vedova nera prende a pigione nella sua villetta di una cittadina in riva al Mississippi un finto professore di logorroica eloquenza che prepara un colpo grosso in un vicino casinò con quattro complici di scadente competenza tecnica. Lei li scopre, loro progettano di eliminarla… I fratelli Coen, anche coproduttori, hanno estrapolato dall’ottima sceneggiatura di William Rose per La signora omicidi (1955) la spina dorsale e l’umorismo nero, eliminando tutto il resto (anche la dimensione caustica, purtroppo) e sostituendolo con l’ambientazione diversa, personaggi altrimenti caratterizzati, non poco stereotipati, e una colonna musicale straripante di gospel. Oltre a un corvo e a un cane con maschera antigas, fanno parte dell’azione Pickles, gatto rossiccio, e il ritratto di Othar, defunto marito dell’impagabile signora Munson cui rimane il bottino a dimostrazione che la fede in Dio e i principi morali pagano. Hanks (doppiato da Massimo Rossi) si diverte col linguaggio fiorito e le poesie di Poe del suo facondo ciarlatano, ma la Hall gli ruba spesso la scena.
Una vecchia, simpatica signora inglese prende a pigione un sinistro individuo e i suoi quattro amici che stanno preparando una rapina e che, scoperti, progettano di eliminarla. Due dei più distinti attori inglesi in questa celeberrima e un po’ sopravvalutata commedia Ealing, in bilico tra satira e parodia, attraente nel suo impasto di umorismo nero che stinge nel rosa. Scritta da William Rose. Si dice che il prof. Marcus di A. Guinness fosse modellato sull’aspetto fisico del celebre critico e saggista Kenneth Tynan che allora lavorava alla Ealing come consulente letterario.
Frank Sinatra nei panni di un simpatico tipo di fallito, buono come il pane e idolatrato dal figlioletto, ma incapace di provvedere a se stesso. Il fratello maggiore lo spinge a corteggiare una vedova che potrebbe risolvere i suoi problemi; lui esita, la vedova però gli toglierà ogni dubbio. Con l’approvazione del ragazzino.
Un film di Frank Perry. Con Janice Rule, Burt Lancaster, Kim Hunter, Cornelia Otis Skinner Titolo originale The Swimmer. Drammatico, durata 94′ min. – USA 1968. MYMONETRO Un uomo a nudo valutazione media: 3,08 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un uomo decide di tornare a casa bagnandosi in tutte le piscine della zona residenziale in cui vive. Ogni piscina è un ricordo del passato. Tratto da racconti brevi di John Cheever e sceneggiato da Eleanor Perry, moglie del regista, è una singolare parabola metaforica sulla caduta del “sogno americano”, in una cornice esteticamente fin troppo ricercata (esterni nel Connecticut), con un ottimo Lancaster. Girato nel 1966, fu tenuto fermo per 2 anni perché ritenuto troppo arty, troppo poco commerciale.
Max, con Giulia, sua compagna, guida un gruppo di galeotti che evadono dalla prigione dell’isola del Diavolo e che devono attraversare la giungla. Quando Max viene ripreso dalla polizia, Giulia lo convince a rassegnarsi a scontare la pena.
Due giovani di diversa condizione sociale si amano, ma non possono sposarsi a causa di un dissidio tra i rispettivi padri. Lei allora decide di andarsene; la famiglia di lui, ricca e intransigente, finirà col commuoversi. È il film che accredita Capra come uno dei grandi registi-autori del mondo. Poesia, umorismo, realizzazione dell’impossibile. I temi che poi verranno espressi, magari con maggiore spessore, nelle opere successive. Fu anche la grande occasione di James Stewart, trentenne, che da quel momento divenne uno dei divi di punta di Hollywood.
Dal racconto Rita Hayworth and the Shawshank Redemption di Stephen King (nel volume Stagioni diverse). 1946: direttore di banca, condannato per l’uccisione della moglie e del suo amante, è inviato al carcere di Shawshank. L’amicizia con un ergastolano nero e la competenza fiscale lo aiutano a sopravvivere. È il più intelligente e sottovalutato dramma carcerario in linea con la migliore tradizione hollywoodiana (claustrofobico, violento, garantista, liberale) con 2 novità: il tema della durata (il tempo che passa) e i connotati sociali del protagonista, vittima di un errore giudiziario. Le mozartiane Nozze di Figaro in una sequenza d’antologia di un film dove il rispetto delle convenzioni assume le cadenze serene e rasserenanti del cinema classico, impregnato di un generoso umanesimo. Esordio registico dello sceneggiatore F. Darabont.
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