Una complessa operazione internazionale, per neutralizzare una cellula terroristica, si intensifica quando alcuni dei maggiori ricercati si trovano nella stessa casa, a Nairobi, e stanno preparando attentati suicidi. Dopo una serie di estenuanti telefonate burocratiche tra il colonnello Powell, il generale Benson (ultima performance di Rickman) e i membri del Governo britannico e americano, la decisione è quella di inviare un drone. L’arma tecnologica è pilotata dal giovane ufficiale Steve Watts dall’interno di un hangar nel deserto del Nevada. Ma una bambina si siede davanti al bersaglio, a vendere pane. Il pilota si rifiuta di premere “il grilletto”. Che fare? Valutare nuovamente i danni collaterali? Rischiare di uccidere anche la bambina, considerando che i kamikaze provocheranno un numero nettamente superiore di morti? Hood affronta il dibattito sulla giustizia dei droni, come Good Kill di Niccol. Un racconto teso, con personaggi umani, cinici, dai nervi d’acciaio e un lessico tagliente; un film ambientato nei campi minati dell’etica. Un soldato obbedisce senza fiatare o viene rimosso dal suo incarico. Qui il soldato impersona la coscienza della guerra moderna; nodo narrativo in cui si impiglia la trama di questa profonda commedia nerissima, scritta da Guy Hibbert.
Murphy ha sposato Omi con un matrimonio riparatore, poichè Omi è rimasta incinta della loro figlioletta durante un rapporto non protetto. Quel rapporto occasionale è stato la causa della drammatica rottura fra Murphy e il suo grande amore, Electra. La mattina del primo dell’anno la madre di Electra telefona a Murphy e lo informa di non avere più notizie della figlia, ed essere preoccupata perchè la ragazza soffre di tendenze suicide. Nell’arco di 24 ore Murphy ripercorrerà con la memoria le tappe della sua folle passione per la sua ex anima gemella, cercandone il perdono. Gaspar Noé, che nel precedente Irréversible aveva filmato a lungo lo stupro della protagonista interpretata da Monica Bellucci, non è nuovo alle provocazioni, e questa volta ha deciso di raccontare una storia di “sessualità sentimentale”, come la descrive lui stesso nel film: una storia di quelle che, secondo Noé, si raccontano troppo raramente al cinema perchè la censura impone che la componente esplicitamente erotica di una relazione rimanga nascosta allo sguardo degli spettatori. In Love Noé non nasconde proprio niente: masturbazioni, eiaculazioni verso il pubblico (che in 3D fanno un certo effetto), penetrazioni filmate dall’interno di una vagina, triangoli, fellatio, cunnilingus e chi più ne ha più ne metta (ovunque). L’intento dichiarato è raccontare con cruda onestà l’ossessione sessuale fra due corpi che si amano, quello sotteso è fare scandalo a tutti i costi. Peccato che, quanto a cruda onestà fra due corpi che si amano, Love è stato battuto sui tempi, e di gran lunga superato in valore artistico, da, fra gli altri, La vita di Adele, che proprio l’anno scorso a Cannes vinse la Palma d’Oro. Peccato anche che la trama di Love sia una serie di siparietti melodrammatici stile fotoromanzo (o b-movie soft porn), messi lì ad intervallare le scene di sesso, e la storia resti inerte (mentre tutto il resto continua freneticamente a sollevarsi).
Due medici operano in una piccola clinica circondata dalla nebbia. Uno dei due, il solitario Chen Sheng, decide di partire per un viaggio in treno per andare a trovare il nipote, abbandonato dal fratello. Sulla strada per Zhenyuan,si ferma in un luogo magico, Dang Mai, dove il tempo va sia avanti che indietro e dove ha modo di ripercorrere le tappe della sua vita per riflettere sulla sua esistenza. Chen riparte e raggiunge il nipote ma si accorge che il ragazzo riesce a vivere bene anche senza il padre. Così lo saluta e mantiene la promessa fatta alla collega di fermarsi nell’abitazione del suo ex amante per consegnargli alcuni oggetti.
Enzo è un piccolo criminale di Tor Bella Monaca che vive di espedienti: un solitario che passa le sue serate abbuffandosi di porno e budini alla vaniglia. Un giorno, inseguito dalla polizia, si tuffa nel Tevere, dove entra in contatto con una sostanza che gli dona una forza da supereroe. All’inizio usa i suoi poteri per raggranellare un po’ di soldi. Un “colpo” sferrato contro un furgone portavalori incrocia il suo destino con quello dello Zingaro (spettacolare e surreale Marinelli), pesce piccolo della malavita romana, un isterico con l’ossessione della celebrità, fissato con la musica italiana anni ’80. Enzo si trova coinvolto in una guerra senza esclusione di colpi. Intanto, la vicina di casa Alessia lo identifica col protagonista del cartone giapponese “Jeeg Robot d’Acciaio”. Rarità nel panorama cinematografico italiano, scritto, con Nicola Guaglianone, e diretto da Mainetti – attore, musicista e regista, già autore di 4 corti ispirati al mondo dei fumetti e dei cartoni animati – rinfresca il concetto di film di genere. La storia di questo “supereroe per caso”, con i classici stilemi, potere/responsabilità, cattivo psicopatico, ragazza al centro della storia, si fonde con realismo nella realtà romana e italiana di Mafia Capitale, della crisi economica, con un’eco degli anni di piombo. La fotografia cupa esalta uno stile coraggioso e insolito. Dialoghi divertenti. Intrattenimento coinvolgente mai scontato. David di Donatello per: miglior attore/attrice, attore/attrice non protagonista, regista esordiente, montatore, produttore.
Ispirato a 5 novelle del Boccaccio. Ambientato in una Firenze trecentesca colpita dalla peste: un gruppo di giovani fugge dalla città e si rifugia in una casona di campagna, dove passano il tempo a raccontarsi storie. I Taviani aprono e chiudono il film con scene di peste, simbolo di tutti i mali – “tutte le pesti di cui siamo circondati: dallo spettacolo d’orrore di quei monatti vestiti di nero che guidano prigionieri vestiti d’arancio alla crisi di casa nostra” – e valorizzano (o per lo meno vorrebbero farlo), nello sviluppo narrativo, la forza delle donne – “sono loro ad aver l’idea di lasciare Firenze e gli uomini vengono loro dietro” – ma scene e costumi da serie tv degli anni ’70 (le parrucche sono inguardabili), una recitazione filodrammatica penosa e la prolissità uccidono tutte le migliori intenzioni.
Isabelle, morta in un incidente, è stata una celebre fotoreporter di guerra. Il suo editore le dedica una mostra e un noto giornalista, collega di passati reportage, sta per scrivere un articolo su una verità che il marito di Isabelle non ha mai voluto raccontare al figlio minore, Conrad, adolescente introverso e ostile. Il figlio maggiore, Jonah, è appena diventato padre, torna nella casa di famiglia per sistemare l’archivio della madre. Più forte delle bombe (traduzione del titolo originale): lo sono i dolori luttuosi e le relazioni tra i 3 protagonisti, padre e 2 figli, che devono fare i conti con la morte della donna centro delle loro vite, in un momento di accentuato disagio e cambiamento. Un film che, attraverso il linguaggio del flashback, in cui compare Isabelle, analizza il rimpianto e la perdita attraverso chi sopravvive. 1° film in lingua inglese del norvegese Trier, pecca nell’uso di troppi cliché formali che lo rendono poco attraente. L’ottimo cast, da parte sua, conferisce eleganza alla storia. Degna di nota la morbida colonna sonora di Ola Fløttum.
Maurizio, padre di famiglia ed erede di una gloriosa tradizione di baristi di quartiere, sta per buttarsi da Ponte Milvio. Quando un ambulante tenta di distoglierlo dai suoi propositi l’uomo comincia a raccontare la storia che l’ha portato a quella decisione estrema. Il padre Nando è morto lasciandogli i debiti collezionati dal bar e la scoperta di non essere proprietario di casa ma affittuario, per di più moroso. Maurizio vende il bar ai cinesi e paga i debiti, ma gli rimangono pochi spiccioli e uno sfratto esecutivo. E non avendo il coraggio di confessare a moglie e figlio il proprio tracollo economico, si inventa un sacco di bugie per nascondere panico e vergogna. Al suo debutto come regista e (co)sceneggiatore, il comico Francesco Pavolini riesce in ciò in cui molti suoi colleghi hanno fatto fiasco, ovvero costruire una trama che non è una semplice collezione di sketch cabarettistici e un personaggio con una dignità cinematografica e una riconoscibilità umana. I temi e gli ambienti che racconta ricordano quelli descritti recentemente da Gianni Di Gregorio, concentrandosi su una romanità di quartiere (in questo caso Piazza Vittorio e dintorni), e su uno spirito popolano mai troppo distante dalla realtà. In particolare funziona bene il rapporto coniugale fra Pavolini e la consorte cinematografica, l’ottima Paola Tiziana Cruciani, che raccoglie l’eredità di tante coppie della commedia all’italiana alla Aldo Fabrizi–Ave Ninchi o Alberto Sordi–Anna Longhi. Trasportati nel Ventunesimo secolo, questi coniugi travolti da un insolito destino diventano cartina di tornasole di una crisi economica che rivoluziona la quotidianità di chi credeva di poter appendere il cappello al chiodo e scopre di dover ricominciare tutto daccapo. Maurizio, “barattolo sballottato” cui non mancava niente e che ora deve inventarsi un’altra vita, attraversa un universo kitch ma credibile e in qualche modo amabile (cui contribuiscono in maniera determinante le scenografie di Eugenio Liverani e i costumi di Liliana Sotira) a passo comico ben ritmato, senza l’afflato poetico di Di Gregorio ma con il mordente della battuta colorita (non greve), riuscendo a descrivere in forma ironica quella sindrome del vivere al di sopra delle proprie possibilità in pieno diniego esistenziale che ha causato la rovina di tante famiglie italiane piccolo borghesi (e non solo), e a veicolare un messaggio di resistenza umana secondo cui “un passo indietro e uno in avanti è un cha cha cha”, non solo il tragicomico andirivieni del gambero
2011, Casale Monferrato. Luca e suo padre Eduardo non si frequentano da anni. Eduardo era operaio all’Eternit e il lavoro l’ha tenuto lontano dalla moglie e dal figlio. Luca voleva fare l’attore ma è finito a fare il pagliaccio alle feste. Ad una di queste incontra Raffaella, con cui il feeling è immediato. Ma Luca scopre che il padre sta morendo per aver contratto in fabbrica il mesotelioma, un tumore causato dall’esposizione alle fibre di amianto. E la loro vita diventa una battaglia per riavvicinarsi e ottenere un risarcimento almeno morale per l’ingiustizia subìta, mentre Raffaella viene allontanata senza spiegazioni.
Sceneggiato dalla regista con Francesco Piccolo, è il remake del riuscito, esilarante, imperdibile film di Delaporte e La Patellière Cena tra amici (2012) tratto dalla pièce Le prénom di B. Murat, con qualche inevitabile mutamento/adattamento in funzione italiana (uno per tutti: là il nome del nascituro era Adolf, qui è Benito). Invitato a cena dalla frustrata sorella Betta, sposata con il suo migliore amico Sandro, insieme all’amico di tutti Claudio, e aspettando l’arrivo di Simona, sua moglie incinta, Paolo comunica che chiameranno il nascituro Benito. Si scatena il finimondo ed emergono rancori, cose non dette, invidie e gelosie e una notizia bomba. Dopo un irritante inizio con voce off romana dove le s sono rigorosamente pronunciate come delle z, il film decolla e si allontana dal suo genitore francese e migliora progressivamente, diventando anche un altro film, arricchito e appesantito dai flashback, ma a modo suo divertente e più politicamente (s)corretto. Un terzetto di attori al meglio di sé (specie Papaleo), con un delizioso coro-balletto sulla canzone di Dalla “Telefonami tra vent’anni”. La Ramazzotti è non solo bella ma anche brava e credibile, la Golino rende bene il suo personaggio di frustrata in ombra e si prende il suo momento di sfogo sgomitando.
Dal romanzo Dejarse llover ( Lasciarsi portare , 2005) di Paula Farias, attivista di Medici Senza Frontiere, sceneggiato da Diego Farias. Bosnia, novembre 1995, nei giorni in cui fu firmata la pace di Dayton. 5 assistenti umanitari di una ONG cercano una corda per tirare fuori da un pozzo un cadavere buttatovi apposta per allontanare gli abitanti del luogo. Si rivela un’impresa disperata. Quasi un documentario di una giornata qualunque di un gruppo di volontari in una zona bellica, riesce a far capire cos’è una guerra senza far sentire nemmeno uno sparo, a coinvolgere e perfino a divertire intrecciando le vicende umane dei protagonisti. Merito della regia, in primo luogo per la direzione degli attori, credibili e affiatati. Il titolo è lo stesso di una canzone di Lou Reed, che fa la parte del leone nell’incisiva colonna sonora.
Momenti salienti, spesso in tempo reale, degli ultimi 10 anni della vita della poetessa milanese Antonia Pozzi (1912-1938): l’amore per il suo professore di greco al liceo, stroncato dall’ingerenza paterna; il giudizio negativo alle sue poesie del suo docente universitario di letteratura; le scalate sulle Grigne; gli innamoramenti frustrati per due coetanei. Sceneggiata con Carlo Salsa, l’opera 1ª di Filomarino è un’indagine volutamente discreta e irrisolta – condotta con una scrittura asciutta ed ellittica, che lavora di sottrazione – sulla profonda ed enigmatica interiorità di un’artista. Ma è anche un tentativo riuscito di ricostruire, con acribia filologica, il suo contesto socio-ambientale, cioè la Milano degli anni ’30. Privo di colonna musicale, a eccezione della canzone “Va” di Piero Ciampi, essenziale, di grande eleganza figurativa, deve molto al nitore della fotografia di Sayombhu Mukdeeprom, ai costumi di Ursula Patzak, alle scenografie di Bruno Duarte e all’originale interpretazione di Linda Caridi. A volte, tuttavia, il regista si compiace della sua intransigente austerità e scivola nella grevità. Menzione speciale al Festival Karlovy Vary. Prodotto da Luca Guadagnino.
A Venezia, Zara, avvenente islamica antitradizionalista, apre un negozio di parrucchiera nei locali prima concessi ai suoi correligionari come moschea. Aizzata da un nobile spiantato neoconvertito, la minuscola e scombinata comunità musulmana veneziana chiama in suo aiuto un improbabile imam afghano e tenta di eliminare Zara in tutti i modi. Uno più efferato, e sconclusionato, dell’altro. Film bizzarro che attinge ai modelli della commedia all’italiana, per fare la satira del fondamentalismo islamico nostrano e della sua misoginia. Scarsa comicità e carenza di ritmo compensate dal messaggio di tolleranza, da qualche buona trovata, da originali inquadrature di scorci della città lagunare e dal brio della innovativa musica multietnica dell’Orchestra di Piazza Vittorio, composta da 18 musicisti di 10 diverse nazionalità.
Primi anni ’40. Annetta arriva a Cagliari alla ricerca di Tecla, di cui si è presa cura dopo che la madre della ragazza è morta. Dalla povertà del paese natìo Annetta si trasferisce al lusso del palazzo cagliaritano dove assume l’incarico di custode quando le proprietarie sfollano in campagna per sfuggire ai bombardamenti che stanno devastano il capoluogo sardo. In quella Cagliari sventrata dalla guerra Annetta si muove come un’ombra poiché si vive come un oscuro angelo della morte: ha ereditato dalla madre un compito e un destino, quello dell’accabadora, donna che nella tradizione sarda dava ai malati terminali la “buona morte”, soffocandoli con un cuscino o coprendoli con un bastone. Un ruolo che Annetta non ha scelto ma che ha accettato con la quieta rassegnazione con cui molte donne hanno acconsentito al posto loro assegnato in una società arcaica dalle tradizioni millenarie.
Al confine tra USA e Messico, Kate, agente dell’FBI esperta in rapimenti, è inserita in una task force speciale in missione contro i narcotrafficanti, al comando di Matt, un carismatico agente di machiavellico pragmatismo e cinico mercenario, affiancato da un enigmatico e ambiguo ex magistrato riciclato in giustiziere. Thriller d’azione, film di genere ma d’autore, con un percorso narrativo di situazioni sempre più violente che precipitano Kate in un vortice di intrighi, corruzione e degrado morale, nel quale non si fida più di nessuno, è spinta a varcare i limiti imposti dalle regole e dalla legge (ma anche dalla sua etica personale) e dal quale non sa come uscire. Splendido tema musicale di Jóhann Jóhannsson a scandire i momenti di maggiore tensione, minaccioso, lugubre, funereo, ansiogeno. Bel trio di protagonisti, funzionali.
Adolf Hitler – Lui – si sveglia improvvisamente nella Berlino dei giorni nostri. Stranito dalla multiculturalità e dalla tecnologia, è accolto come un fenomeno da baraccone e tedeschi e turisti scattano foto con lui. Inizia una carriera in un programma TV comico. Diventa famoso. Scrive un libro. Continua a far ridere. L’unica a riconoscerlo è un’anziana ex deportata, ma dal momento che oramai è “fuori di testa”, nessuno le crede. Le cose orribili, che Lui proclama, rischiano di trovare terreno fertile in una Europa invasa da un odio xenofobo mai sopito. “Tutti mi avevano seguito perché tutti erano come me, non ci si può liberare di me perché sono una parte di voi. Ora le condizioni sono favorevoli!” Tratto dall’omonimo romanzo di Timur Vermes (oltre 2 milioni di copie solo in Germania e tradotto in 40 Paesi), già disponibile su Netflix Italia, è uscito in sala distribuito da Nexo Digital, purtroppo solo per 3 giorni. Wnendt fa interagire il suo Hitler con attori professionisti che seguono un copione e con improvvisazioni di gente vera in giro per la strada. Le 380 ore di materiale girato sono state montate in un film che fonde fiction e documentario in un’amara commedia di satira sociale. Film tedesco col maggiore incasso del 2015. Si riflette.
Su sceneggiatura di Aaron Sorkin, dal libro di Walter Isaacson, Boyle prende un talento straordinario e potente come Fassbender, si focalizza su 3 momenti chiave nella carriera di Jobs (distinti da 3 formati diversi 16, 35mm e digitale), passando per i backstage delle presentazioni di 3 suoi prodotti di diversa fortuna in 3 momenti della sua ascesa: il primo Macintosh nel 1984, il NeXT dell’88 e l’iMac del 1998, per fare, a modo suo, il ritratto di un personaggio geniale e discusso che si barcamena tra i conflitti con la figlia Lisa e con la madre della ragazzina Chrisann Brennan, e con i problemi dell’ultimo minuto, con Steve Wozniak, suo partner fin dagli inizi, John Sculley, CEO della Apple, e Andy Hertzfeld, ingegnere del software. Madre svizzera e padre siriano, adottato in California appena nato dai coniugi Jobs di fede luterana, abbandona l’università dopo il primo semestre. Informatico, produttore cinematografico, imprenditore e inventore, fondatore di Apple Inc., arcifamoso nel mondo per aver inventato Macintosh, iMac, iPod, iPhone e iPad. Accusato di essere presuntuoso, arrogante, anticonformista, manipolatore, con una vita privata burrascosa e complicata, muore di cancro a 56 anni.
Jorge Bergoglio è uno studente come tanti nella Buenos Aires degli anni Sessanta, con amici e fidanzatina, quando decide di entrare a far parte dell’Ordine dei Gesuiti. Vorrebbe diventare missionario in Giappone ma non gliene viene data l’opportunità, perché da subito deve apprendere la virtù dell’obbedienza: sarà proprio questa a porlo di fronte alle scelte più importanti della sua vita, perché dovrà distinguere fra i doveri verso la propria coscienza e la sottomissione al regime dittatoriale di Videla e allo strapotere dei proprietari terrieri in una terra polarizzata fra grandi ricchezze e grandissime povertà. Daniele Luchetti e il suo produttore, Pietro Valsecchi, si sono buttati nell’impresa di raccontare la storia di Bergoglio prima che diventasse Papa con lui ben vivo e presente in Vaticano, senza consultarlo e senza chiedere la collaborazione dell’istituzione ecclesiastica. Questo ha dato loro la (relativa) libertà di raccogliere testimonianze da una quantità di persone più o meno attendibili, di affrontare direttamente il capitolo più spinoso e controverso della vita dell’allora Responsabile provinciale gesuita, ovvero il suo rapporto con la dittatura argentina negli anni fra il 1976 e il 1981, e di prendere le sue parti dando credibilità alla versione della Storia che lo vede a fianco dei desaparecidos e dei preti militanti.
I sette fratelli Angulo, di madre statunitense e padre Inca peruviano, sono cresciuti nel Lower East Side di Manhattan come su un’isola deserta: per anni infatti hanno vissuto segregati in casa, uscendo un massimo di nove volte l’anno, e qualche anno non uscendo mai. Papà Oscar era l’unico a possedere le chiavi di casa, a decidere come e quando ci si potesse spostare all’interno dell’appartamento, ad assicurarsi che moglie e figli non venissero “contaminati” dal mondo esterno. Sui suoi famigliari l’uomo, seguace del culto Hare Krishna, aveva un potere assoluto. Del resto per i suoi sei figli maschi e la sua unica figlia femmina, nonché per la consorte, Oscar era Dio: un dio intransigente, a volte violento, spesso ubriaco e fuori controllo, sempre onnipresente. The Wolfpack, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Sundance nella sezione Documentari, racconta – o meglio, fa raccontare ai diretti interessati – l’esistenza anomala degli Angulo e la loro graduale acquisizione di una misura di autonomia e autodeterminazione. La regista esordiente Crystal Moselle si è imbattuta per caso nei sei fratelli e li ha avvicinati a poco a poco, entrando in sintonia con quel nucleo famigliare così anomalo attraverso il comune amore per il cinema. Gli Angulo infatti hanno una vera e propria venerazione per la Settima arte, comunicata ai figli proprio dal Dio-padre: solo attraverso il cinema hanno conosciuto la realtà, e infatti quando la incontreranno “dal vivo” continueranno a paragonarla a scene delle migliaia di film cui hanno assistito, che hanno collezionato in forma di vhs e dvd, unici supporti mediatici, insieme a una videocamera, in una casa in cui televisione, computer e persino telefono erano off limits, in quanto veicoli di contaminazione col mondo. I ragazzi Angulo, tutti incredibilmente cinegenici, si raccontano come personaggi da film, e si divertono a reinterpretare i copioni (trascritti parola per parola alla macchina da scrivere) dei loro film preferiti, creando i propri costumi con materiali di risulta. Per cinque anni Moselle ha filmato il loro cinema nel cinema, testimoniando con una sovrapposizione a matrioska la messinscena che è l’intera vita dei ragazzi. Anche la storia stessa di The Wolfpack è imbevuta di cinema, da Gli acchiappafilm a Mosquito Coast, con sfumature che ricordano, per rimanere al passato recentissimo, Partisan, Miss Violence e Mustang, tutte storie di padri padroni seguaci di culti (o culture), e dei loro figli (e mogli) confinati in casa. The Wolfpack non è un film di finzione, ma si inserisce in quel nuovo filone documentaristico che indica l’autentica direzione futura del genere: quello storytelling autoctono che non è né documentazione oggettiva della realtà, né ibridazione da docufiction (come Sacro G.R.A.The Wolfpack ricorda lo straordinario Stories We Tell di Sarah Polley, che ricostruiva la vicenda della madre dell’attrice canadese lasciando spazio a rivelazioni che si dispiegavano in tempo reale davanti agli occhi della figlia (e ai nostri). Sia in Stories We Tell che in The Wolfpack l’operazione registica è principalmente maieutica, l’intervento saggio e partecipe di una levatrice che accompagna e asseconda un parto naturale: forse non è un caso che dietro la cinepresa ci siano mani (e menti) femminili. The Wolfpack è un’operazione metacinematografica che ha per location una camera oscura (l’appartamento a scatola cinese in cui sono rinchiusi gli Angulo, e nel quale ambientano le loro autorappresentazioni) animata da persone che sono simultaneamente esseri umani reali e interpreti cinematografici della propria esistenza. Ma è anche un commovente inno alla libertà come diritto umano inalienabile e una struggente presa di coscienza da parte di sei anime giovani (all’unica sorella andrebbe dedicato un film a parte) e una non più giovane. Il vero salto di qualità però è compiuto dalla regista quando, dopo un’ora di documentario in cui hanno parlato i ragazzi e la moglie, dà voce anche a Oscar, contemplando la possibilità che esistano più sfumature in questa storia e più rifrazioni nel caleidoscopio umano, perché non esistono risposte semplici, né una comfort zone in cui trovare inequivocabilmente riparo. Questa si chiama onestà documentaristica, questo sì che è coraggio.
In una bella masseria pugliese si organizza la celebrazione – con tanto di targa e autorità politiche locali coinvolte – dei 10 anni dalla morte di Saverio Crispo, divo del cinema e del teatro e protagonista di spicco delle cronache mondane di una volta, 4 mogli di 4 paesi diversi e 4 figlie. La famiglia si riunisce per la commemorazione organizzata dalla prima moglie, la italiana, che se lo era anche ripreso in vecchiaia, e dalla primogenita, clandestinamente fidanzata con un buono e paziente. Arrivano la figlia francese che ha 3 figli da 3 uomini differenti, la spagnola sposata con impenitente donnaiolo e con mamma al seguito, la svedese che quasi non ha mai visto il padre e, in ultimo, la quinta figlia, riconosciuta solo con la prova del DNA. Come prevedibile, esplodono vecchi rancori, gelosie, segreti e bugie. Ma soprattutto l’arrivo della controfigura di Saverio, Pedro del Rio, darà una svolta imprevista alla vita di tutte. La Comencini conosce bene l’ambiente del cinema e lo racconta con affettuosa ironia, disegnando con acume il ritratto di un personaggio (un po’ Gassman, Mastroianni, Tognazzi, ma anche Volonté e Rossellini…) circondato da una galleria di personaggi femminili uno più riuscito e divertente dell’altro.
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